L’Autorealizzazione

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“Vocatus atque non vocatus deus aderit”

“Chiamato o non chiamato, il dio sarà presente”.

Questa è l’iscrizione su pietra che Jung fece incidere sulla porta d’ingresso della sua casa di Küsnacht, in Svizzera. Essa rappresenta la risposta che l’Oracolo di Delfi diede agli spartani quando questi progettarono una guerra contro Atene e gli ateniesi. L’oracolo rispose che il dio sarebbe stato presente.
Quando fu chiesto a Jung il motivo per cui avesse scelto proprio una tale frase, egli rispose:
“… perché volevo esprimere il mio senso di precarietà, la sensazione di trovarmi sempre immerso in possibilità che trascendono la mia volontà”.

Ma quali sono queste possibilità altre in cui Jung si sente immerso? A quale dio fa riferimento?

 “Esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere”

Nelle parole di Jung riecheggia il tema del Destino.

Chi di noi non si è mai chiesto “qual è il mio destino?”, “ho un destino?” “sono destinato a qualcosa?” Chi di noi non ha mai cercato di capire nella sua vita quale fosse il percorso evolutivo migliore per realizzare sé stesso?

A quello di Destino, è strettamente connesso il tema dell’Autorealizzazione, intesa come aspirazione individuale a essere ciò che si vuole essere, a diventare ciò che si vuole diventare, a sfruttare appieno le nostre facoltà mentali, intellettive e fisiche in modo da percepire che le proprie aspirazioni siano congruenti e consone con i propri pensieri e con le proprie azioni.

Ad una prima e superficiale analisi, Destino e Autorealizzazione potrebbero sembrare concetti opposti e inconciliabili. Come possiamo parlare di destino, come qualcosa di ineluttabilmente dato e assegnato e, nello stesso tempo, di libertà di scelta e libertà che l’uomo ha di scegliere di essere più o meno artefice della propria esistenza? Il tutto acquisisce senso e significato se inserito all’interno di una dimensione più ampia che contempli il concetto di individuazione, tema centrale della psicologia di Jung, ovvero quel processo, spontaneo e autonomo, che permette all’individuo di recuperare la radice originaria del suo essere e diventare finalmente sé stesso.

In quest’ottica, Destino e Autorealizzazione si fondono e acquistano un nuovo senso nella misura in cui “Non potevo che essere quello che sono”, “non potevo che diventare quello che sono diventato”.

James Hillman ci parla del daimon. Secondo Hillman esiste qualcosa in ciascuno di noi che ci induce ad essere in un certo modo, a fare certe scelte, a prendere certe vie. Questo qualcosa è appunto il daimon, che ciascuno di noi riceve come compagno prima della nascita, secondo il mito di Er, raccontato da Platone. È ciò che si nasconde dietro le parole “vocazione”, “chiamata”, “carattere”…

“Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di essere venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto; è lui dunque il portatore del nostro destino”.

Tutti, presto o tardi”, dice Hillman, “abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Alcuni di noi questo “qualcosa” lo ricordano come un momento preciso dell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti con la forza di un’annunciazione: “ecco quello che devo fare, ecco quello che devo avere. Ecco chi sono”.

La mia vita ha senso se io scopro qual è il senso della mia vita; la sensazione che esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo e che esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che a quel quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere.

Tutte queste cose possiamo chiamarle “vocazione”, “destino”, “carattere”, “immagine innata”. Le molte parole e i molti nomi non ci dicono che cosa sia questo “qualcosa”; però ci confermano che esiste.

“Non possiamo sapere esattamente a che cosa ci riferiamo, perché la sua natura rimane nebulosa e si rivela più che altro per allusioni, per sprazzi di intuizione, in sussurri e nelle improvvise passioni e bizzarrie che interferiscono nella nostra vita e che noi ci ostiniamo a chiamare sintomi”.

Sono queste tutte cose che sostanziano la “teoria della ghianda”, dice Hillman. L’idea cioè che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta.

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