Jung dice che l’Anima, per esistere, ha bisogno della sua altra parte, che si trova sempre in un “Tu”, ed è tramite il “Tu” che è possibile conoscere sé stessi. Il Tu di cui parla Jung è incarnato nell’Altro ed è con questo Altro che l’individuo si relaziona nel corso della sua esistenza.
È interessante come il concetto di Altro venga inteso da Jung sia in modo estroverso, nella misura in cui l’Altro rappresenta tutto ciò che è “altro da me”, il mondo esterno quindi, sia, e contemporaneamente, in modo introverso, come Altro dentro di me, l’anders denken, quell’altro che pensa attraverso di me e talvolta anche contro di me.
Vi propongo una citazione tratta da un’opera del filosofo greco Eraclito, vissuto nel VI secolo a.C:
“per quanto tu cammini e per quante strade tu possa percorrere, non troverai mai i confini dell’anima, così profonda è la sua vera essenza”.
Le parole di Eraclito, di cristallina chiarezza, introducono un concetto fondamentale nell’ambito del percorso di definizione della propria identità: il concetto di confine. E ne avvalorano l’esistenza: esistono i confini, anche indipendentemente dal fatto che ne siamo consapevoli e che riusciamo a riconoscerli, e dovremmo tentare di uniformare il nostro comportamento alla consapevolezza dell’esistenza di confini.
Una caratteristica peculiare del concetto di confine è la capacità di convertire la quantità in qualità. Il tracciare il solco, il definire il confine, attiva, istituisce alcune polarità che sono fondamentali dal punto di vista qualitativo: interno/esterno, dentro/fuori, familiare/estraneo, dritto/storto, giusto/erroneo, conosciuto/sconosciuto. Da questo punto di vista, non ci limitiamo a cogliere esclusivamente gli elementi geometrici descrittivi dello spazio, ma riconosciamo allo spazio una sua specifica qualità. È la qualità che emerge quando ci riferiamo, ad esempio, all’origine del tempio come luogo di accoglienza del divino. Prima che i templi fossero costruzioni, era sufficiente tracciare un solco di forma circolare per trasformare la qualità dello spazio circoscritto dal solco. Quello spazio diventava lo spazio del sacro, il temenos, qualitativamente diverso dal resto dello spazio, anche se apparentemente non si registrava alcuna differenza.
Il confine è quindi la linea che separa, che istituisce lo scarto, che include ed esclude, che definisce la dimensione del sacro. Ma, ciò che è davvero più caratteristico del confine, è il cum: è il fatto che quel finis, quella linea che circoscrive e traccia il solco, è un luogo di incontro, un luogo di rapporto, di relazione. Nello spazio qualitativo del confine, io incontro l’Altro. Ed è proprio nello spazio del confine che entra in gioco la mia identità, che posso cercare di separare e definire solo in rapporto all’alterità dell’Altro. Il confine diventa quindi luogo di incontro, nel quale conquisto la mia identità nel rapporto con l’Altro. Ma a condizione che io quell’Altro sia disposto a riconoscerlo nella sua radicale alterità rispetto a me, che non lo consideri tale da poter essere accettato solo se mi assomiglia, perché allora perderebbe la sua funzione di alterità e farebbe smarrire a me l’identità che nasce proprio dal rapporto con l’Altro.
La presenza dell’Altro legittimizza e caratterizza la nostra esistenza, nella misura in cui, proprio attraverso l’Altro, noi sentiamo di esistere, ci specchiamo e ci sentiamo riconosciuti.
Restando sul continuum della duplice dimensione, introversa ed estroversa, è sul confine che incontro lo straniero, quel radicalmente Altro da me che io devo accogliere, anche se non posso sapere se sarà hospes, e cioè ospite, amico, o hostis, e cioè nemico (il che, in termini junghiani, equivarrebbe all’incontro con le mie parti Ombra), ma devo ugualmente accoglierlo, e non per generosità, ma perché è solo nel rapporto con l’Altro che io posso costruire la mia identità.